DIARIO DI VIAGGIO
“Teresa”

Lungo una strada infinita una fila di anime scalze avanza innocente con la nuca piegata sotto l’insostenibile peso del cielo. Dentro una luce mercuriale e oleosa cammino verso l’ombra muta che una fontana d’inchiostro disegna al centro di una vasta piazza assolata. Dietro la vasca un vecchio gettato a terra riposa e presidia la strada. E’ alto e cariato, ha gli occhi grigi e di sangue segnati. Quando gli parlo le sue cieche pupille si infiammano sotto il carbone delle ciglia, ora il suo sguardo come una lama taglia ed apre vertigini in me che lo guardo. Ha un braccio offeso da chissà quale sventura, un caramello unto che ustiona lo sguardo e lascia un bagliore che acceca sul fondo degli occhi.

Procedo veloce e mi allontano da lui, come un sonnambulo costeggio le mura e allungo un po’ il passo, solo quando mi giro mi accorgo che il sole sta sciogliendo i propri contorni nel cielo. Ancora uomini e donne si accalcano in strada e attendono nudi sotto alberi neri il passare del tempo. È umanità variegata e senza fine, quella che avanza, una grigia savana che spoglia e si spoglia di ogni parola e riconsegna l’uomo alla propria natura animale.

Mi confondo e mi perdo in questa Guernica di pezzi viventi ….compiutamente mi accorgo dell’intimo soffio comune che abita tutte le forme di vita che vedo. Il pianto di un bimbo, la coda di una vacca, un fuoco che brucia, il ritaglio nero di un uomo che vive in un vicolo. Ora guardo i miei sandali e in un solo momento mi accorgo che sto camminando in equilibrio su un ramo. Un ramo tra i rami di questo enorme albero che ha nome Calcutta. Finalmente trovo la strada, alzo gli occhi e la tua casa mi prende per mano e mi fa entrare in cortile.

Una piccola suora vestita di bianco e d’azzurro china la testa in un grande sorriso.  Mi aspetta da tempo, da immemorabile tempo.

È un filo rosa che borda, sutura e contiene gli abissi e i dolori dell’uomo; E’ un nodo focale sul quale convergono i meridiani del cuore di tutto il Pianeta. Lei sa tutto di me, sa tacere l’amore, il suo mestiere è ascoltare … Ora gentile mi fa entrare nella tua cella spartana. È il luogo a cui ogni sera tornavi dopo le fatiche del giorno; un letto piccino, piccino, un modesto scrittoio di legno, una panca ormai andata ….è la stanza di un contadino quella che vedo. Quando usciamo dietro il cuscino è un rumore minuto quello che sento per un attimo un ombra d’argento trema i propri contorni come fiamma sul fondo del muro. Mentre varco la porta e mi muovo per ritornare al cortile mi accorgo dell’esistenza di un fiore, che azzurro riposa in un vaso sul comodino; per delicatezza, ora piega un poco lo stelo e lascia un petalo, un frammento di cielo sul pavimento di camera tua.

La suora nella luce che cede al far della sera mi mostra il luogo della tua sepoltura; tra le brune radici delle sue dita germoglia felice l’immagine di te che sorridi. Diverse sorelle, pregano sedute su piccole sedie con in mano un rosario. Questa stanza simboleggia l’eterno riposo di qualcosa che invece vive fecondo nei tuoi insegnamenti qui fuori per strada. E’ uno straniamento profondo quello che provo, uno scarto insanabile che è il taglio che accompagna puntuale e costante l’essere diviso dell’uomo. E’ come guardare una foto che presuntuosa pretende di essere quello di cui ne è solo l’immagine.

Ora mi allontano da qui ed esco per ritornare alla strada, per perdermi ancora un pochino e ricominciare a viaggiare.

Andrea Giacomelli